articolo di Donatella Tiraboschi – Corriere della Sera ed. Bergamo, 30 maggio 2021
Cantava de Gregori che non è da certi particolari (la paura di un rigore) che si giudica un giocatore. Ma il presidente di un’azienda, sì. Il particolare è un caffè che Franco Togni, presidente di Automha di Azzano San Paolo, realtà internazionale leader nell’automazione intralogistica per ogni settore merceologico, prepara dalla macchinetta in ufficio e serve direttamente. Nessuna delega alla segretaria Nadia (seppur fidatissima, che lo segue da 40 anni).
«Ho imparato a fare di tutto, fin da ragazzino e grazie a mio papà che era elettricista alla Falck. Facevo impianti elettrici, aggiustavo biciclette e moto, mi ingegnavo tantissimo e intanto sognavo».
Che cosa?
«La vita è fatta di sogni da realizzare. Facevo l’operaio alla Ote, e intanto studiavo per diventare perito elettrotecnico all’Esperia nel dopo lavoro: dieci ore in fabbrica e quattro a scuola serale, poi a casa, a Villa d’Almè, in biciletta. Volevo diventare impiegato e passare da uno stipendio di 45 mila lire a uno di 120 mila. Mi promuovono progettista, ma anche quello poi non mi è più bastato, volevo qualcosa di mio. Avrei io potuto continuare anche a fare il rappresentante con la valigetta in mano. Ho sognato anche quella, di pelle marrone, e l’ho avuta. Ma chi commercia vende e non crea».
L’intraprendenza non le è mancata.
«Nel 1978 mi licenzio e mi sposo. Due momenti fondamentali perché, mentre avviavo la mia attività in un garage in San Tomaso, mia moglie mi è stata vicina dandomi la necessaria serenità e un aiuto concreto».
Ne è passata di acqua sotto i ponti.
«Già, l’acqua che scorre, i fiumi sono grandi convogliatori. Gli acquedotti romani sono stati il primo impianto scorrevole della storia. É il concetto primario da cui è partita la mia avventura di imprenditore. Progettavo impianti e componenti per il trasporto dei materiali in ogni tipo di azienda. Mi rendevo conto che più che dare vita ad un prodotto, insieme ai miei tecnici, alcuni dei quali dopo 35 anni lavorano ancora qui con me, proponevo soluzioni ai problemi che i clienti avevano. Questa è la differenza, capire le esigenze e soddisfarle con un servizio e un prodotto su misura».
Come il montascale che lei ha progettato per la funicolare di Bergamo?
«Un amico mi parla di un ragazzo disabile. Lo incontro, beve da una cannuccia ma ha una forza straordinaria e un desiderio: riuscire a salire le scale con la carrozzella. In Italia, negli anni ’80 non esistevano impianti del genere, ma mi sono detto: perché non provare a progettarli? Così sono nati i primi montascale per uso pubblico che abbiamo installato in città».
Occuparsi di movimento significa avere sempre la testa in movimento?
«Credo proprio di sì. Di impianti ne abbiamo realizzati a centinaia in ogni parte del mondo e per ogni esigenza, declinando i tre fattori che costituiscono il nostro “Codice Automha”, il combinato di movimentazione orizzontale, come appunto gli acquedotti, e poi verticale. Quando ero militare ero rimasto affascinato dal pozzo di san Patrizio a Orvieto. Geniale, una doppia scala elicoidale che non si intreccia mai».
Oltre agli acquedotti e al pozzo di San Patrizio?
«C’è il vettore “auto-mobile” disegnato da Leonardo Da Vinci e indica l’automazione, tutti concetti che sono confluiti nei nostri magazzini automatici, che sono in grado di trasformare il caos in un sistema ordinato. A me piacciono le cose precise, perfette e belle. Se un impianto è bello, il funzionamento non può che essere ottimale».
Il primo impianto?
«Fu per la Burago, azienda che produce modellini di auto. Fu una grande soddisfazione e con quei primi soldi, mi ricordo, mi tolsi la soddisfazione di comprarmi una Bmw. Ma penso anche al primo grande lavoro per una società di logistica in provincia di Genova. Era il 1984, anni in cui nel primo capannone di Zanica, disegnavo trasportatori a matita e li davo da realizzare alla carpenteria. Così costruivamo i nastri trasportatori e cominciavamo a muoverci sul mercato, Milano, Bergamo, Brescia».
Di internazionalizzazione neanche l’ombra.
«Allora no, ma anche in questo caso ci sono due elementi fondamentali. Ricordo la prima fiera in Cina, nel 2000, quando abbiamo proposto una macchina che poi ci hanno copiato tutti e poi l’inglese, inteso come lingua. A 50 anni l’ho imparato a furia di ascoltare le cassette del metodo Shenker e con un soggiorno di studio a Portsmouth un’estate. Come un sedicenne. Impararlo bene è fondamentale, lo dico ai giovani ancora pria di prendere una laurea».
Altri consigli?
«Le opportunità ci sono, ma bisogna saperle cogliere con impegno e abnegazione. Alle nuove leve che cercano un impiego, interessa prima lo stipendio e poi la libertà nel fine settimana. Io non sapevo cosa fossero un sabato e una domenica liberi».
Cosa significa essere industriali oggi?
«Avere delle responsabilità e affrontarle con la massima serietà sia nei confronti dei dipendenti, con stipendi sempre pagati, e con identica affidabilità e puntualità anche verso i fornitori. Le situazioni, ed è quello che chiedo ai miei collaboratori, vanno previste per tempo, non si può dare la colpa al mercato».
Automha in tre aggettivi?
«Seria, innovativa e dinamica. L’inaugurazione del nuovo plant va in questa direzione, puntiamo a un’organizzazione di grande livello capace di soddisfare il cliente, limitando i costi e nello stesso tempo offrendo stimoli a un organico capace».
Come la vedono i suoi dipendenti?
«Non mi vedono proprio (ride). L’azienda si è ingrandita e molti non li conosco, ma sanno che per loro la mia porta non è aperta, ma spalancata. Credo di aver dato molto ma di avere pure ricevuto tanto».
Oggi, con l’inaugurazione della nuova sede, lei realizza un sogno. Gliene rimane qualcuno nel cassetto?
«Quello di saper governare una barca a vela. Per il senso di pace che dà saper andare per mare. Io che sono “un montanaro” di Villa d’Almè…».
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